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Guarire la nascita per guarire il mondo


Marilia Zappalà - 01/01/2016

 

Tratto da Scienza e Conoscenza n. 38.

Il bambino sta per uscire dal canale del parto, già si vedono i capelli, ancora poche spinte spontanee e tutto il suo corpo sguscia fuori dal ventre della madre e atterra sul morbido cuscino posto sotto la donna accovacciata. La donna lo vede e per un attimo non crede a suoi occhi, poi tende una mano incerta verso di lui, lo sfiora con un dito, quasi con un timore reverente... Ancora qualche frazione di secondo e qualche migliaio di espressioni che si dipingono sul suo volto, poi la donna, la madre, lo ri-conosce: ma certo, è proprio lui. È il suo bambino, quello che ha portato in pancia per nove mesi e di cui ha già conosciuto i contorni, i ritmi, i movimenti, il carattere: ora che può vederlo si accorge che sapeva già com’era fatto, non poteva che avere questo viso, questo corpo. Istintivamente lo prende tra le braccia e lo avvicina al seno, come per riunirsi a lui, guardando i suoi occhi, i suoi occhi che si aprono e si fissano nei suoi.

In quello sguardo così indefinibile, intenso, antico, così amoroso, la madre misura in un attimo la distanza incredibile che entrambi hanno dovuto superare per incontrarsi, e anche il padre che ora si è unito a loro in quello scambio di sguardi, si lascia sopraffare dall’immensità di quel prodigio nel quale ora, forse per la prima volta in nove mesi, riesce a sentire con orgoglio che grande parte ha avuto.

Un momento come quello forse non si ripeterà più nel corso della loro vita futura, ma non lo
scorderanno mai perché da quel momento saranno tutti e tre indissolubilmente legati in un vincolo spontaneo e naturale di reciproco amore, di reciproca pre-occupazione di reciproca assistenza. Un vincolo fatto di gioia, di responsabilità e di attenzione che proteggerà la vita e il benessere del bambino e il senso dell’essere genitori nei due adulti. Un legame sì, ma ricco di soddisfazioni come quella grande che provano adesso, di aver messo al mondo un essere completo, perfetto, che già dà segni di comprenderli e di riconoscerli e che con il suo sguardo attento comunica intelligenza e fa sentire più intelligenti. Un legame, certo, ma anche un’esperienza fondamentale, un primo modello di relazione per quel bambino destinato a crescere e, un giorno, ad accogliere e proteggere anche lui un figlio della sua specie.

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Il bonding: il primo legame tra genitori e figlio
Questa magia di sguardi e di sensazioni, il cui avverarsi dovrebbe essere garantito per diritto
costituzionale a tutti i neonati e a tutti i neo-genitori: è il bonding, la nascita del primo legame e, come per la fuoriuscita della placenta, come per la suzione del colostro dal capezzolo della madre, completa e sancisce il processo della nascita.
Come le femmine dei mammiferi del nostro Pianeta riconoscono di aver messo al mondo un
cucciolo dall’odore che questo emana e che provoca in loro un’ondata di istinti all’accudimento che durerà fino alla sua completa autonomia, anche le madri umane e i padri umani hanno bisogno di questo primo contatto esclusivo col proprio piccolo per mettere in moto l’istinto materno e paterno e vivere in seguito con sicurezza e competenza il ruolo di genitori: è la memoria arcaica, quella legata all’istinto della procreazione e alla sopravvivenza della specie che si risveglia, e ci si accorge di fare e di provare con naturalezza gesti e sentimenti che si credeva di non conoscere, ricevendone un grande piacere e un senso di appartenenza.
Anche il piccolo, del resto, è arrivato col suo bagaglio di memorie arcaiche e si aspetta di essere accolto proprio così, di ritrovare nel calore delle braccia e nel nutrimento del seno, un senso rassicurante di continuità con ciò che provava dentro la pancia. Non si aspetta certo di essere messo da parte, solo, in una culla fredda e ferma, troppo grande, o di essere manipolato da mani estranee di cui non riconosce l’odore. Ma spesso accade proprio questo e il neonato si ritrova solo mentre i genitori si ritrovano a mani e pancia vuoti, e in tutti e tre resta un senso di stupore che non è meraviglia, un senso di disagio sottile e di estraneità che sarà difficile superare e che renderà più duro diventare genitori e figlio. Disagio che nasce anche dal fatto che questa mancanza il più delle volte non è neanche vissuta consapevolmente, perché certe credenze e procedure protocollari l’hanno mascherata dietro parole come sicurezza, igiene, prevenzione, controllo, ma che invece ha un nome solo: separazione.

Cominciare una nuova vita insieme da separati è un controsenso che può portare in alcuni casi
anche a conseguenze molto negative nel futuro: malessere, depressione, insofferenza, difficoltà di relazioni, ne vale la pena?
Ma restiamo alla situazione ideale, quella dell’incontro non interrotto, del legame non interferito, quella naturale. È favorita certo dalla libertà, da un ambiente rispettoso, da un contesto sociale che ne riconosce il valore, ma anche da quei nove mesi vissuti assieme prima della nascita, nove mesi in cui il contatto fra nascituro, madre e padre ha avuto tanti momenti per essere vissuto e espresso, da quando la mamma ha cominciato ad avvertire i suoi primi movimenti leggeri come sottili vibrazioni, da quando il papà lo ha accarezzato attraverso la pancia e lo ha calmato col suo vocione, da quando i membri della famiglia e gli amici lo hanno accettato con gioia e hanno cominciato a immaginarlo. Il legame in qualche modo si era già creato, il bonding prenatale predisponeva già a un incontro felice.
Di questo bonding prenatale e di quello che avviene al momento della nascita, siamo tutti custodi e responsabili, tutte le persone che circondano una coppia in attesa, tutti gli operatori che si prenderanno cura di loro hanno un dovere di protezione verso il primo legame. Certo, sarà più facile per tutti se ognuno avrà avuto il suo bonding, quand’era il momento.


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Ciò può avvenire solo se, come dice Michel Odent, “ritorniamo alle origini”, cioè alla fisiologia
della nascita, nel senso più profondo del termine fisiologia. Fisiologia infatti significa qualcosa che va al di là di un parto “normale”, nei canoni epidemiologici, perché fa riferimento a un evento globale in cui ci si sia predisposti al rispetto dei bisogni delle donne e dei nascituri.
Per la donna, la parte più attiva al momento del parto è la parte profonda del suo cervello, le strutture cerebrali primitive che condividiamo con tutti gli altri mammiferi: l'ipotalamo, la ghiandola iposfisaria e tutti gli ormoni che devono essere messi in moto per poter partorire. L'ambiente in cui si svolge il parto dovrebbe quindi tenere conto della fisiologia ed evitare di stimolare la neocorteccia, la parte razionale, cosa che avviene per esempio con l'uso di luci violente e di un linguaggio razionale. Le donne hanno bisogno di intimità, di sentirsi al sicuro e protette, di non sentirsi osservate, per ché i processi endogeni chimici e ormonali, possano trovare la loro libera espressione e il compimento di quanto la natura ha predisposto.

Nascita e società: un legame non casuale
In quella che viene chiamata “la terza fase del parto”, cioè l'ora successiva alla nascita, la madre, il neonato e il padre si trovano in una condizione emotiva e chimica eccezionale, pronti all'incontro e al riconoscimento che crea in loro per sempre il legame d’amore.
È il seme della relazione familiare, ma anche il seme della relazione col mondo, ciò che
crea nell'individuo la capacità di amare, cioè di rispettare e di proteggere.
Fa notare Odent che in tutte le società basate sull'aggressività e la dominanza, come la nostra, c'è la tendenza a interrompere questo momento di incontro: il neonato viene subito preso, lavato, manipolato, visitato, misurato, valutato e soprattutto separato dai genitori, mentre a madre e padre anziché poter godere di quell'onda incredibile di felicità che sarebbe anche la ricompensa dell'attesa, della paura, del dolore del parto, resta un senso di vuoto, e del legame solo la catena.
John e Troya Turner, psicoterapeuti del “Whole Self Institute” dissero queste parole, dopo l’attacco dell’11 settembre alle Twin Towers: «Il problema non è il terrorismo, il problema è una generazione di esseri umani senza identità. La questione è: che cosa rende gli esseri umani incapaci di provare amore, compassione o empatia verso se stessi e chiunque altro, diventando così distruttori della stessa specie? Che cosa è successo perché degli esseri umani possano diventare così distorti psicologicamente, emozionalmente e spiritualmente da credere che l’Islam, una delle vie più spirituali nel mondo, possa incoraggiare l’assassinio e il suicidio per guadagnare il paradiso? Le condizioni che danno ai terroristi una falsa identità sono le terribili circostanze alle quali le loro madri furono esposte durante la gravidanza, il
parto e dopo la nascita dei loro figli: le condizioni di impotenza, disperazione, inadeguatezza, paura emozionale, terrore e panico di madri gravide ai cui figli era impossibile nascere in un ambiente sicuro e pieno di amore, in una relazione di fiducia con il mondo».
Riflettendo su queste visioni, espresse da persone che hanno dedicato le loro migliori energie e conoscenze a curare la Nascita, viene da pensare che tutti noi potremmo contribuire
responsabilmente a creare situazioni e ambienti adeguati per la nascita e per il primo incontro col neonato, potremmo riavvicinarci consapevolmente alla naturalità del parto e conoscerci meglio come esseri umani bisognosi di un imprinting d'amore da restituire come energia d'amore verso gli esseri che ci circondano e la nostra madre Terra.
In un’epoca di Transizione la casa potrebbe essere da riscoprire come luogo ideale per la nascita? Una Nascita naturale e “sociale”, elemento per ritessere quella tela di rapporti comunitari che l’arrivo di un bambino ha il potere di stimolare con la forza della vitalità di una nuova vita. Una forza che ci spinge a dare il meglio di noi come esseri umani e a proteggere il nostro futuro come specie. Potrebbe darsi che curando la nascita cominceremmo a guarire il Pianeta?

Tratto da Scienza e Conoscenza n. 38.


Scritto da Marilia Zappalà

È socia fondatrice dell’Associazione Basilico nata nel 2002 con l'obiettivo di sostenere la creazione di eco-villaggi, diffondere i metodi dell'agricoltura naturale e della permacultura, praticare stili di vita ecologici. Nel suo ambito sono in corso due progetti di insediamenti sostenibili in Toscana, a Corricelli (Prato), e nel Cilento, fra Campania e Basilicata
Il percorso che l’ha portata alla permacultura è partito alcuni anni fa dalla conoscenza della fisiologia della nascita e dalla promozione del parto in casa e in ambienti non medicalizzati.

Info e contatti: www.associazionebasilico.org



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