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Esperienze di premorte (NDE): anche la scienza inizia a parlarne

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Francesco Albanese - 01/01/2016

Cosa accade realmente dopo la morte? Dopo quell’istante che demarca il confine tra la vita e la non-vita? Tra l’esistenza della persona e la sua non-esistenza? Cosa accade dopo che il cuore ha dato il suo ultimo battito, e che l’ultima molecola di anidride car-bonica è stata spinta fuori dai polmoni? La medicina occidentale non ha dubbi: “dopo la morte, cessa irreversibilmente ogni funzione biologica dell’organismo, e prendono avvio i processi di autolisi e di decomposizione.” Quindi, dal momento della morte in poi, le cellule che costituiscono i vari tessuti dell’organismo vivente cominciano a staccarsi dai tessuti stessi e ad “autodigerirsi”, nella generale tendenza a ritornare a forme più semplici, meno organizzate, di materia.
Il punto di vista della medicina occidentale ci lascia però con la sensazione di esserci persi qualcosa per strada. Insomma, tutto il resto, dove è andato a finire? Dove è andata a finire la persona che amava passeggiare in riva al mare, che sorrideva davanti a un ge-sto gentile, o che scoppiava di rabbia quando qualcosa non andava come voleva? Che fine hanno fatto i suoi ricordi, i suoi gusti, le sue attitudini, le sue paure? In altre parole, che fine hanno fatto la sua personalità, la sua mente, la sua coscienza?
In linea di massima, ogni religione ci assicura che qualcosa sopravvive alla morte, un qualcosa che possiamo tout court chiamare anima. La scienza di matrice riduzionista, quella più organicista, tende invece a identificare la persona col suo cervello, e il cervello con la persona. Per questa scienza, tutti i fenomeni psichici sono un prodotto del cervello: è il cervello che crea i pensieri, è il cervello che crea i ricordi, è il cervello che crea le emozioni, è il cervello che crea la coscienza, e così via. Pertanto, morto il cervello, morta la persona, morta la coscienza (che è un po’ come dire che quando l’auto è parcheggia-ta non esiste più il guidatore…).
Questa impostazione, adottata dalla scienza figlia di Cartesio, deriva essenzialmente dall’aver applicato per secoli un modello dualistico-deterministico per la lettura e la comprensione del mondo. L’aver ampiamente provato che la stimolazione elettrica di specifiche aree cerebrali produce altrettanto specifici fenomeni psichici (ad esempio l’evocazione di ricordi, o di odori), e l’aver ripetutamente constatato che lesioni di specifiche aree portano alla perdita delle funzioni del corpo da esse controllate (ad esempio la vista, o il movimento), ha portato alla conclusione che siano le stesse aree cerebrali a produrre i fenomeni e le funzioni.
Ancora oggi si cade nello stesso equivoco, e si continua a ricercare, adesso con sofisticati sistemi di rilevazione come la PET o la fRMI, quale sia l’area cerebrale dell’amore, o della morale, o addirittura della coscienza, e così via. Ma il fatto che con tecniche di neuroimaging si sia in grado di rilevare che determinati processi di pensiero accadono simultaneamente a cambiamenti metabolici in specifiche aree cerebrali, non dimostra affatto che i processi cerebrali siano generati da questi cambiamenti. In altre parole, l’osservare che le funzioni del cervello sono associate alla coscienza non equivale a dire che il cervello crei la coscienza (Laszlo, 2009). Allora, non c’è motivo oggettivo di pensa-re, né modo di verificare, che la mente, e soprattutto la coscienza, nascano dalla materia, e con la materia muoiano.
Nonostante i racconti di esperienze NDE riportati in tutto il mondo, e in tutti i tempi, condividano similitudini che vanno al di là del sesso, della cultura, della religione e del-la razza, la Scienza ha sempre guardato con scetticismo a questi fenomeni. Così, la Scienza materialista continua per la sua strada, sostenendo fermamente la propria posi-zione, secondo la quale, con la morte, finisce ogni attività biologica e mentale dell’organismo. Come accade per un sofisticato televisore, stacchi la spina e finiscono le trasmissioni.
Ma sembrano esserci prove che confermano proprio il contrario.

 

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Esperienze di premorte
Le NDE (Near Death Experience), o esperienze di premorte, sono fenomeni vissuti da persone in coma, o dichiarate clinicamente morte. Alcune di queste ricordano la loro esperienza tra il momento della morte e il ritorno alla vita e riportano descrizioni molto simili, accomunate da elementi ricorrenti (Moody, 1975; Elsaesser-Valarino, 2014):
1.    l’uscita dal corpo, un vero e proprio distacco dal corpo fisico, che raccontano di aver visto dall’alto, o dalla prospettiva dei soccorritori;
2.    l’attraversamento di un tunnel buio a velocità vertiginosa, alla fine del quale si trova una luce intensa e mai accecante;
3.    la sperimentazione di una gioia infinita;
4.    la sperimentazione dell’assenza di spazio e di tempo;
5.    l’incontro con amici o parenti defunti, o altre persone, venuti incontro per fare da guida, con le quali è possibile comunicare istantaneamente e senza parla-re;
6.    la ricapitolazione della propria vita, rivissuta quasi istantaneamente, con gli stessi stati d’animo di allora, esperendo contemporaneamente gli stati d’animo vissuti al tempo dei fatti dalle altre persone coinvolte;
7.    l’accesso a una conoscenza assoluta (sia dal punto di vista delle nozioni che della conoscenza dei fatti passati e futuri, dell’intero Universo);
8.    la visione di una soglia, oltre la quale il ritorno nel corpo sarebbe stato impos-sibile. E la scelta, o l’imposizione, di tornare in vita.


Le spiegazioni della scienza
Di fronte a questi racconti, la Scienza dualista sorride: niente di concreto, niente da misurare, da pesare. Niente che obbedisca alle leggi che regolano il mondo che cono-sciamo. Niente che dimostri una sorta di sopravvivenza di qualcosa alla morte. Le NDE, dice questa Scienza, sono spiegabili da più di una teoria basata su evidenze cliniche che ne giustificano l’esistenza, senza dover ricorrere a concetti metafisici come l’anima.

  • La teoria più accreditata è quella delle allucinazioni, create dal cervello in ri-sposta ai cambiamenti metabolici che intervengono nel momento della morte: carenza di ossigeno o eccesso di anidride carbonica, o la somministrazione di farmaci o anestetici, come la ketamina, sarebbero i fattori scatenanti di risposte cerebrali anomale, da cui scaturirebbero i vissuti tipici delle NDE.
  • Un’altra teoria, anch’essa piuttosto accreditata, è quella dell’epilessia del lobo temporale: la fenomenologia che si manifesta durante una NDE non sarebbe al-tro che l’effetto di un’attività elettrica anomala dei lobi temporali del cervello, notoriamente associata alla percezione distorta degli eventi, ad allucinazioni articolate, a déja vu, alla perdita di memoria, all’aura epigastrica, fino all’attacco di panico.
  • Le teorie psicologiche, infine, suggeriscono che le esperienze vissute durante una NDE, benché appaiano del tutto reali, siano un artefatto della mente. In punto di morte, la mente metterebbe in atto dei meccanismi di difesa per “tutelarsi” dallo shock, e costruirebbe ciò che la persona, più o meno cosciente-mente, si aspetta di affrontare al momento della morte. I vissuti di derealizza-zione e depersonalizzazione (tipici degli attacchi di panico), anche questi si-stemi di difesa dalla minaccia della morte, giustificherebbero alcuni aspetti delle NDE; mentre, nello specifico, l’esperienza del tunnel non deriverebbe al-tro che dalla ricerca di conforto nel richiamare alla memoria il vissuto dell’esperienza della nascita.

Nessuna di queste teorie, però, sembra essere soddisfacente. Si pongono infatti una serie di problemi e di paradossi che fanno vacillare la loro pseudo-solidità:

  • Innanzi tutto, non dimentichiamo che si parla di teorie, e soprattutto che le te-orie psicologiche devono  essere ancora sottoposte a verifica sperimentale.
  • Secondariamente, le NDE sono vissute allo stesso modo da persone morte in circostanze diverse, mentre la teoria delle allucinazioni potrebbe, al limite, a-dattarsi a circostanze specifiche (ad esempio, a tutti i casi in cui sono stati somministrati anestetici).
  • Infine, ogni teoria focalizza soprattutto l’aspetto allucinatorio, trascurando il fatto che spesso chi ha vissuto una NDE è in grado di riferire dettagli su ciò che stava accadendo attorno al suo corpo, nell’arco temporale in cui risultava clinicamente morto.

Ma come possono i neuroni del cervello di una persona dichiarata clinicamente morta, e quindi priva di ogni attività fisiologica, scambiarsi informazioni elettrochimiche e generare nuove configurazioni per creare nuove memorie? Come potrebbe una persona dichiarata clinicamente morta vedere i medici affannarsi sul proprio corpo se la mente e la coscienza stessero realmente nel cervello?


Francesco Albanese
Psicologo Clinico, Psicoterapeuta, Giornalista, Autore.Ha collaborato per oltre dieci anni alla ricerca in campo di Attaccamento col Dipartimento... Leggi la biografia
Psicologo Clinico, Psicoterapeuta, Giornalista, Autore.Ha collaborato per oltre dieci anni alla ricerca in campo di Attaccamento col Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale dell’Università di Pisa, ed è stato cultore della materia al corso di Psicologia Sociale presso l’Università degli Studi di Firenze, Scuola di Psicologia, dove... Leggi la biografia

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