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Imitation Game: un bel film sulla vita di Alan Turing


Emanuele Cangini - 01/01/2016

Siamo soliti pensare, e non a torto, che le scoperte scientifiche e le innovazioni della tecnica siano e debbano essere rappresentative di quegli stessi scopritori e autori che ne hanno mosso gli esordi.
Convinzione peraltro convalidata da tutta una serie di appellativi e designazioni che richiamano, per maggior impatto e maggiore efficacia comunicativa, i personaggi che ne promossero la formulazione: alludo alle leggi di Newton per esempio, alle leggi di Keplero, alla relatività di Einstein, solo per citarne alcune. Tutte riportano il nome di chi le ha ideate, tanto da renderne figurativo e immediato il riconoscimento; la scoperta, l’invenzione, è sullo stesso piano dell’uomo, assurgendo su questi binari a una simmetrica identità di importanza e riconoscimento, senza plus-valori e senza plus-valenze.
Schema perfetto mi verrebbe da osservare, se non fosse per il film Imitation Game, uscito sui grandi schermi nel 2014, per la regia di Morten Tyldum, e basato sulla vita del matematico inglese Alan Turing; film che sovverte perfettamente la struttura sopra designata, proponendo abilmente e provocatoriamente una dislocazione totalmente antitetica: il dramma dell’uomo che si antepone alla grandezza dello scienziato.

 

La solitudine di un matematico
Questo, a quanto ho inteso, si è rivelato essere il proponimento del regista che ha saputo, abilmente, sfruttare le qualità interpretative di un certo non improvvisato Benedict Cumberbacht. Proiezione che riesce a comunicare in maniera paradossale la dimensione di solitudine ed estraniamento di un genio della matematica, combattuto tra quanto teme di essere e ciò che pensa di essere.
Paradossale ho scritto poc’anzi, proprio così, paradossale, considerando quanta poca attenzione scenografica venga dedicata alla questione della omosessualità e, in sua cagione, a tutta la serie di innumerevoli limitazioni che afflissero Turing. Aspetti taciuti, solo suggeriti, tutt’al più bisbigliati, lasciando che l’incedere della pellicola vada soffermandosi sulle questioni più pragmatiche, e certo più di cliché, riguardanti la macchina “Enigma”.
Compito non facile, dire senza dire, comunicare evitando di puntare il riflettore… Compito non facile ma eseguito senza indugio, volgendo lo sguardo sulla proiezione nella sua interezza, che sceglie consapevolmente di evitare il focalizzarsi sul particolare al fine di mantenere intatto quel quadro complessivo che esalta l’uomo oltre ciò che compie, oltre ciò che teme, oltre ciò che subisce.


Chi era Alan Turing?
Un matematico, sì certo, un crittografo, sì certo, uno dei padri putativi dell’informatica, sì certo… tutto ciò, ma non è stata una di queste la risposta che mi sono dato non appena concluso il film.
Turing è stato un uomo, offeso, umiliato e svilito nella propria dignità.
E seppur importanti, come si dedurrebbe da un documentario che con occhio clinico ne descrivesse i formidabili studi e le formidabili implicazioni, le sue innovazioni certo non distolgono il focus dell’osservatore dalla ingiustizia che ne minò la salute fisica e mentale. E senza dubbio a poco è valso il tentativo della storia d’amore con la collega Joan Clarke, forse gesto disperato di raddolcire una trama già votata all’amara meditazione, se non fosse per quei risvolti nei quali, tra i due, si percepisce una volontà di amore che certamente frainteso, viene riscattato da un’amicizia non per questo meno nobile.
La trama concitata delle vicende della guerra si fonde con la prosecuzione narrativa nel campus di ricerca: un microcosmo a volte statico, circondato da una frenesia di personaggi “ubriachi” di spionaggio e ricolmi di tensioni politico-strategiche. E in questa cornice si adagia un tormentato rapporto con i colleghi di lavoro, prima, e amici, poi, senza meno non secondo alla imponenza scenografica della procedura di creazione della macchina “Christopher”. Personaggio emblematico Turing: affetto da una balbuzie a tratti invadente, svela di sé una personalità per certi aspetti narcisistica, punta dell’iceberg di un retroterra fatto di timidezza e difficoltà relazionali.

 

Perché vedere il film
Geniale la trovata dei ripetuti flash-back quali prezioso escamotage regressivo, contestuali a quella precisa volontà di non recidere mai il cordone ombelicale con il passato e con la propria infanzia; scelta che si rivela decisiva nel conferire quella sfumatura “leopardiana”, quel sapore “felliniano”, di un clima fanciullesco che non tornerà più, ma non per questo meno vivo.
Tante sono le frasi che potrei citare tratte dal film, come esemplari ed esplicative della pellicola intera, tante a tal punto da rendere difficoltosa una scelta ponderata e riflettuta.
Ecco perché mi fido dell’intuito e, seguendolo, ricordo una frase di chiusura, pronunciata con fervore e devozione dall’“amica” Joan Clarke; una frase talmente densa di vibrazione poetica che, anche da sola, avrebbe potuto assurgere a colonna portante del film.
«Il mondo è un posto infinitamente migliore perché tu non sei normale».
Il gesto perfetto, il colpo di spugna.
Un sussulto, un trionfo di quella umanità che a Turing era stata ingiustamente sottratta.
Il giusto epilogo che restituisce valore e decoro al dramma di quell’uomo che, solo nel 2009, ricevette in via ufficiale le scuse di sua Maestà la regina.


Emanuele Cangini
Emanuele Cangini nasce a Modena, dove frequenta una scuola ai indirizzo tecnico e a seguire l'Università presso la facoltà di Ingegneria... Leggi la biografia
Emanuele Cangini nasce a Modena, dove frequenta una scuola ai indirizzo tecnico e a seguire l'Università presso la facoltà di Ingegneria Meccanica.È curatore e revisore di testi per Macro Edizioni, e per la rivista Scienza e Conoscenza nonchè giornalista divulgativo e critico letterario, relatore e conferenziere. Accanito lettore, da sempre... Leggi la biografia

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