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Specchio, specchio nel mio cervello: i neuroni mirror

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Marco Capozza e Laura Pieroni - 01/01/2016
Il desiderio è metà della vita, l’azione l’altra metà.

La scoperta
Negli anni ‘80 un gruppo di ricercatori dell’Università di Parma condotti da Giacomo Rizzolatti scoprì i neuroni mirror. Aneddoticamente si narra che, come altre scoperte scientifiche importanti, anche questa avvenne per caso. Un ricercatore aveva installato dei microelettrodi sensori nel cervello di una scimmia (nella parte più superficiale, la “corteccia”) raggiungendo dei neuroni che si attivavano quando la scimmia prendeva un’arachide da una ciotola. Ad un certo punto, casualmente, lui stesso prese un’arachide dalla ciotola sotto gli occhi della scimmia e, del tutto inaspettatamente, i rivelatori di attività crepitarono: i neuroni della scimmia si erano attivati. Quei medesimi neuroni, che si attivavano quando la scimmia afferrava un’arachide, lo facevano anche quando ad afferrare l’arachide era il ricercatore e la scimmia non si muoveva.
Questo fu sorprendente, perché a quel tempo si riteneva che le sensazioni si formassero nella corteccia della metà posteriore del cervello, e i movimenti nella metà anteriore. Ad esempio, quando vediamo un oggetto, si attivano neuroni della corteccia vicina al polo posteriore del cervello, nel cosiddetto lobo occipitale. Quando udiamo un suono, neuroni della parte postero-inferiore del cervello, il lobo temporale. Quando tocchiamo un oggetto, neuroni della parte più anteriore della metà posteriore del cervello, il cosiddetto lobo parietale. Viceversa, quando ci muoviamo, sia che muoviamo una mano o un braccio o una gamba o articoliamo la parola, si attivano neuroni collocati nella corteccia della metà anteriore del cervello, i cosiddetti lobi frontali, in aree dette “motorie” e “premotorie”.
Ebbene, i neuroni della scimmia in cui il ricercatore aveva inserito i microelettrodi sensori erano neuroni delle aree premotorie, nella metà anteriore del cervello; nessuna meraviglia quindi che si attivassero quando la scimmia attuava il movimento di prendere un oggetto. Grande meraviglia, invece, che si attivassero anche quando la scimmia vedeva l’uomo afferrare un oggetto. Appartenendo alla metà anteriore del cervello, quei neuroni erano supposti essere neuroni motori: non ci si aspettava che si attivassero anche per un evento squisitamente sensoriale come il vedere un altro (in questo caso addirittura un individuo di un’altra specie!) compiere quel movimento. Quei neuroni risultarono essere anche piuttosto specifici: non si attivavano di fronte ad altri tipi di movimento, ma solo all’afferrare in quello specifico modo (con la punta delle dita).
Era questo il primo esempio di neuroni che reagivano sia ad un movimento che ad una sensazione, collocati in zone del cervello che tutti credevano puramente deputate al muoversi.
I ricercatori avevano scoperto i neuroni mirror o neuroni specchio, neuroni che si attivano sia quando l’individuo compie un’azione, sia quando egli vede compiere quell’azione. Sono insomma neuroni che si attivano sia per cause sensoriali (vedere l’azione) che per finalità motorie (compiere l’azione).

Quanti specchi?
Una decina d’anni dopo, l’avvento della risonanza magnetica funzionale consentì di confermare la presenza di analoghi neuroni nell’uomo, e di scoprire che nella corteccia del lobo parietale vi sono altri neuroni che si attivano simultaneamente ai primi alla vista o al rumore (come strappare un foglio di carta) di certi movimenti. Sebbene tutti questi neuroni, diversamente dai primi, non siano dei neuroni specchio in senso stretto, poiché non si attivano sia per percezioni che per movimenti, per il loro evidente collegamento funzionale con i primi hanno originato l’idea di un sistema mirror allargato, a cui abbastanza ovviamente è stato dato il nome di “sistema dei neuroni specchio”.
Tutto questo è realtà oggettiva. I neuroni che fanno quelle cose esistono, ed esiste il sistema dei neuroni specchio.
A cosa serva questo sistema è invece, finora, solo speculazione.
Nel tempo sono state proposte diverse ipotesi, di astrazione via via crescente. Una delle prime ipotesi fu che i neuroni specchio potessero servire all’apprendimento per imitazione. Successivamente si passò all’ipotesi che la funzione del sistema mirror fosse quella di prevedere e comprendere le azioni dell’altro, e contribuire così alla costruzione di quella che è chiamata Teoria della Mente, che detta in termini semplici può essere espressa come: “se un altro fa quello che faccio io o quello che mi aspetto che faccia, forse pensa anche come me”. Da qui il passo era ormai breve verso l’idea oggi prevalente, in grande voga grazie anche al suo indubbio fascino, che il sistema dei neuroni specchio serva all’empatia, all’immedesimarsi con l’altro.
In realtà tutte queste ipotesi, seppur in misura crescente dalla prima all’ultima, mettono l’accento solo sugli aspetti sensoriali del sistema dei neuroni specchio. Questo non stupisce, considerando che la reale sorpresa dei primi neuroni specchio, quelli “veri”, dei lobi frontali, fu proprio la presenza in essi di funzioni sensoriali oltre che motorie; e che i neuroni successivamente scoperti nei lobi parietali non sono veri neuroni specchio, ma neuroni sensoriali. Tuttavia questa deriva rischia di perdere di vista la vera, fondamentale importanza dei primi neuroni specchio, e cioè che si tratta di neuroni contemporaneamente sensoriali e motori. Ogni ipotesi sulla natura di questi neuroni non dovrebbe assumere a priori le funzioni motorie come secondarie, ma dovrebbe invece spiegare come e perché funzioni motorie e sensoriali debbano qui coesistere addirittura a livello di singolo neurone. Per comprendere le azioni di un altro non è certo indispensabile compiere, o aver compiuto, o saper compiere, quelle medesime azioni. Riconosciamo che uno davanti a noi sta suonando la chitarra, o sparando a un bersaglio, o facendo surf, anche senza averlo mai fatto. Questo riconoscimento può quindi essere compiuto anche da neuroni puramente sensoriali, non dotati di alcuna funzione motoria.
In più, quando si parla di empatia, si dovrebbe tenere conto che il termine “empatia” si attaglia essenzialmente alle emozioni; che le emozioni sono comunicate soprattutto da comportamenti automatici, involontari, istintivi, come le espressioni del viso, il pianto, il riso; e che questi comportamenti automatici sono prodotti essenzialmente da neuroni non della corteccia, tanto meno della corteccia motoria o premotoria quali i neuroni specchio. I neuroni specchio riguardano azioni volontarie, intenzionali, non l’espressione delle emozioni. Il massimo aggancio alle emozioni pensabile per questi neuroni è il riscontro che alcuni di essi si attivano per certi movimenti della bocca (legati però essenzialmente al mettere in bocca e al succhiare).
Certamente le emozioni sono dotate di una grande valenza imitativa, sono “contagiose”: vedere qualcuno piangere può farci inumidire gli occhi; veder ridere a crepapelle può far cominciare a ridere anche noi; e via dicendo. Ma questo non implica alcune relazione con i neuroni specchio scoperti. Di fatto, quale grande empatia ci suscita veder prendere un’arachide (o qualsiasi altro oggetto)?
E infatti, nonostante il gran fermento di ricerche prodotto dall’ipotesi che i neuroni specchio servano all’empatia, in realtà nessuna dimostrazione, nessuna prova, è finora emersa a sostegno di questa ipotesi.  Tutto invece, come vedremo fra poco, lascia pensare che i neuroni specchio abbiano poco a che fare con l’empatia. Tentare d’interpretarli innanzitutto come i “neuroni dell’empatia” allontana probabilmente dal comprendere tanto essi quanto l’empatia.

Una spiegazione alternativa
Ma allora questi neuroni specchio a cosa possono servire? Esiste un’ipotesi capace di spiegare la loro duplice natura, sensoriale e motoria, ed il loro legame con il movimento intenzionale?
Tale ipotesi esiste, anzi già esisteva prima della scoperta dei neuroni specchio. I neuroni specchio trovano una collocazione del tutto naturale nel modello proposto da questa ipotesi, e a loro volta la rafforzano, costituendone di fatto la prima conferma sperimentale. L’ipotesi è la cosiddetta ipotesi di movimento “a modello inverso” (inverted model), che ora proveremo a spiegare.
Se prima di muovere un braccio per afferrare qualcosa ci soffermiamo un attimo ad “ascoltare” la nostra attività mentale, che tipo di comandi stiamo per inviare al braccio, ci accorgiamo che in effetti quel che facciamo immediatamente prima di muoverci è immaginare (“vedere” e “sentire”) il nostro braccio durante e al termine del movimento, una sorta di “anticipazione” delle conseguenze sensoriali del movimento.
Possiamo allora ipotizzare che la volontà di attuare un movimento possa consistere nell’immaginare preliminarmente le sensazioni che riceveremmo da quel movimento, e passare queste sensazioni immaginarie desiderate a certe parti del sistema nervoso, che “traducano” quelle sensazioni desiderate nelle opportune attivazioni muscolari capaci di determinare quel movimento.
I neuroni capaci di operare tale “traduzione” sarebbero i neuroni delle aree premotorie e motorie della corteccia cerebrale, che attuerebbero la cosiddetta “trasformazione sensori-motoria”: la traduzione di una combinazione di attivazioni neuronali rappresentante sensazioni in una combinazione di attivazioni di altri neuroni rappresentante (e capace di determinare) un movimento.
Tali neuroni raggiungono questa capacità non grazie a proprietà particolari, ma per semplice apprendimento dall’esperienza motoria nell’arco della vita. Infatti in ogni momento il sistema nervoso riceve informazioni sensoriali dal corpo: informazioni visive, tattili, e propriocettive (le sensazioni dai nostri muscoli, tendini e articolazioni). Questo naturalmente vale anche quando ci muoviamo. Ogni volta che ci muoviamo, automaticamente e inconsciamente il sistema nervoso “impara” quali sensazioni (visive, propriocettive, tattili, ed eventualmente anche uditive) corrispondono a quelle particolari attivazioni muscolari che hanno determinato quel dato movimento. Questo apprendimento lo compiamo soprattutto nella prima infanzia, con i movimenti casuali e  non coordinati del bambino detti “motor babbling”, anche se persiste per tutta la vita ed è quello che ci permette di imparare movimenti sempre più complessi come nello sport e nelle arti, e di continuare a muoverci efficacemente anche in caso di cambiamenti fisici.
L’ipotesi “a modello inverso” assume che, attraverso quelle medesime esperienze di movimento, il sistema nervoso impari anche l’opposto: non solo quali sensazioni conseguono alle varie possibili attivazioni muscolari, ma anche quali attivazioni muscolari corrispondono a quelle sensazioni, cioè quali attivazioni muscolari generano il movimento che ricrea quelle sensazioni. Allora per attuare un movimento volontario basterebbe semplicemente immaginare preliminarmente le sensazioni corrispondenti a quel movimento, e passare queste sensazioni immaginarie desiderate agli opportuni neuroni, che per esperienza hanno imparato quali muscoli attivare, e come attivarli, per riprodurre quel movimento e di conseguenza quelle sensazioni.
Dopo la prima infanzia tutto questo è appreso ormai talmente bene da risultare essenzialmente automatico: generalmente non abbiamo la percezione d’immaginare il movimento prima di compierlo. Ma se, come già detto, ci soffermiamo invece ad “ascoltare” quali comandi stiamo per inviare a una parte di corpo prima di muoverla, ci accorgiamo che in effetti quel che facciamo è immaginarla (vederla e sentirla nel pensiero) compiere quel movimento.

Il desiderio in azione
Il punto centrale di questa ipotesi è che la volontà formula i suoi ordini, e li trasmette al sistema motorio, in “codifica sensoriale”, cioè sotto forma di sensazioni desiderate. Il sistema motorio s’incarica poi di tradurre queste sensazioni desiderate nelle opportune attivazioni muscolari capaci di renderle reali (“trasformazione sensori-motoria”), e attraverso i nervi trasmette quelle attivazioni ai muscoli, la cui contrazione genera infine il movimento fisico. Tutto questo avviene in alcune centinaia di millisecondi, la cui maggior parte è occupata dalla contrazione muscolare e dalla messa in moto dei segmenti corporei.
In questo modello è indispensabile che i neuroni che attuano la trasformazione sensori-motoria dei comandi dalla volontà debbano ricevere e così “conoscere” anche le sensibilità dal corpo, poiché se così non fosse non potrebbero imparare a quali movimenti corrispondono le varie sensazioni, non “comprenderebbero” la codifica sensoriale. Sono quindi neuroni che si attivano sia per stimoli sensoriali legati ai movimenti, sia per produrre movimenti: esattamente come fanno i neuroni specchio.
Questo modello è in grado di spiegare non solo i movimenti elementari come portare il braccio da una posizione ad un’altra, ma anche comportamenti più complessi, come “ora mangio una di quelle arachidi”. In questo caso l’obiettivo finale posto dalla volontà (“mangiare una di quelle arachidi”) è tradotto da una catena di neuroni (o meglio di gruppi di neuroni) dapprima nelle singole azioni, ancora abbastanza complesse, atte a conseguirlo (“prendere un’arachide, mettermela in bocca, masticarla, e ingoiarla”); poi ciascuna di queste azioni è a sua volta tradotta nei movimenti più elementari che la compongono (ad es. “prendere un’arachide” si compone di: “estendere il braccio verso la ciotola”, “estendere la mano”, “allargare le dita”, “abbassare la mano”, “stringere la punta del pollice, dell’indice ed eventualmente del medio intorno a un’arachide”, “rialzare la mano tenendo le dita ferme”); e infine ciascuno dei movimenti elementari così selezionati è tradotto nelle singole contrazioni dei muscoli che lo eseguono.
In questa catena di traduzioni successive ogni gruppo neuronale riceve dal gruppo del livello precedente-superiore il comando in forma sensoriale, seleziona quali azioni più elementari sono atte ad eseguirlo, e trasmette al livello successivo le azioni selezionate, ancora in forma sensoriale. Solo i neuroni dell’ultimo livello, quelli che inviano i comandi al midollo (e da lì ai muscoli), possono essere considerati esclusivamente motori e non sensori-motori. I gruppi a più alto livello (“prendere un’arachide”) possono invece addirittura essere considerati contenere (codificare) l’idea, il concetto dell’azione corrispondente.
I neuroni specchio si trovano lungo questa catena. Anzi, poiché tutti i neuroni della catena (tranne l’ultimissimo livello) sono neuroni sensori-motori, potremmo dire che tutti i neuroni della catena sono neuroni specchio. Dovremmo allora anche aspettarci di trovare neuroni specchio dotati di proprietà diverse, nel senso che alcuni di essi (quelli dei livelli inferiori) si attivino solo per le azioni e i movimenti effettivi dell’individuo;  altri (quelli dei livelli superiori, che “contengono” il concetto di un’azione piuttosto che la sua effettiva esecuzione da parte dell’individuo) siano attivabili anche dal semplice vedere o udire l’azione, anche quando effettuata da un altro.
Ebbene, le ricerche degli ultimissimi anni hanno confermato questa aspettativa (per una rassegna di tali ricerche e delle loro conseguenze concettuali v. Casile, Caggiano e Ferrari, 2011). Sono stati trovati neuroni specchio che si attivano solo quando la mano che compie il gesto è nello spazio peripersonale del soggetto (cioè quando la mano, da un punto di vista puramente visivo, potrebbe appartenere al soggetto), e neuroni specchio che si attivano quando il sistema braccio-mano è visto dal soggetto come se appartenesse a se stesso. Questi riscontri, in un primo tempo considerati sconcertanti e paradossali dai ricercatori orientati alle possibili funzioni “esterne” dei neuroni specchio come imitazione, teoria della mente, empatia, stanno gradualmente riportando l’attenzione degli scienziati sull’importanza dei neuroni specchio nel movimento del singolo individuo, proprio come sopra descritto.  

Conclusioni
La funzione basilare dei neuroni specchio, su cui convergono vie sensitive e motorie e che appaiono avere contemporaneamente funzioni sensitive e motorie, sarebbe quindi essenzialmente quella di permetterci di muoverci volontariamente: un compito critico e fondamentale alla sopravvivenza.
Questo naturalmente non toglie che quei medesimi neuroni possano servire, o almeno collaborare, anche all’apprendere per imitazione, interpretare le intenzioni altrui, e (più difficilmente, per le ragioni espresse nell’ultima parte del paragrafo ‘Quanti specchi?’) persino empatizzare. Semplicemente, tali funzioni appaiono piuttosto accessorie al compito per il quale i neuroni specchio si sono evoluti, e – qualora esistano – probabilmente si sono aggiunte in epoche evolutive successive.
La spiegazione descritta in queste pagine è stata dimostrata tramite simulazione con reti neurali (Accornero e Capozza, 2009). La simulazione con reti neurali è un potente strumento di ricerca in neuroscienze, complementare a tutte le altre modalità di ricerca in quanto in grado di spiegare come avvengono le funzioni del sistema nervoso, e non solo dove avvengono (Parisi, 2001).
Infine, pur senza poter qui entrare nei dettagli, il modello di motilità volontaria descritto esibisce e spiega anche molte altre proprietà del movimento e dell’apprendimento motorio umani, come il miglioramento per ripetizione, l’adattabilità al variare delle condizioni fisiche, la resistenza al danno, il recupero post-lesionale, l’inesistenza nel cervello di risoluzioni esplicite di equazioni di moto e similari. Esso si propone pertanto come il più realistico e plausibile modello di motilità volontaria allo stato attuale. E non da ultimo, ai fini dell’argomento centrale di queste pagine, è l’unico modello capace di spiegare naturalmente e anzi necessariamente l’esistenza e il ruolo dei neuroni specchio e del loro sistema.


Per approfondimenti
Accornero N. e Capozza M., (2009), Coscienza artificiale. Dal riflesso al pensiero, Aracne Editrice.
Rizzolatti G. e Senegaglia C., (2010), "The functional role of the parieto-frontal mirror circuit: interpretations and misinterpretations", Nat Rev Neurosci. 11(4):264-274.
Casile A., Caggiano V. e Ferrari P.F., (2011), "The mirror neuron system: a fresh view", Neuroscientist 17(5):524-538.
Parisi D., (2001), Simulazioni. La realtà rifatta nel computer, Il Mulino.

Scritto da
Dott. Marco Capozza
Neurologo e programmatore, da oltre quindici anni si occupa di connessionismo, reti neurali e vita artificiale. I suoi programmi diagnostici, didattici e di ricerca sono stati pubblicati su riviste internazionali e sono regolarmente utilizzati a livello universitario. Ha collaborato con il CNR e con il CeNCA. Autore di 60 pubblicazioni, di cui 20 su riviste internazionali indicizzate. Per informazioni sull’attività di ricerca: http://www.neuro-soft.it

Dott.ssa Laura Pieroni
Docente presso la LUMSA (Libera Università Maria Ss Assunta). Dopo la laurea in Psicologia Generale e Sperimentale, nel 2006 ha conseguito il dottorato in Psicologia Cognitiva, Psicofisiologia e Personalità presso l’Università “Sapienza” di Roma. Specializzata nello studio della memoria con diverse collaborazioni internazionali. Specializzanda in psicoterapia della Gestalt presso la Scuola IGF di Roma. Vice presidente del Centro di Neuroscienze Cognitive Applicate, CeNCA. Dal 2010 si occupa della divulgazione di temi inerenti le Neuroscienze Cognitive. Tra le sue varie attività l’organizzazione del progetto di psicologia sostenibile “Psicologia Insieme”: http://psicologiainsieme.weebly.com

Marco Capozza e Laura Pieroni
Marco CapozzaNeurologo e programmatore, da oltre quindici anni si occupa di connessionismo, reti neurali e vitaartificiale. I suoi programmi... Leggi la biografia
Marco CapozzaNeurologo e programmatore, da oltre quindici anni si occupa di connessionismo, reti neurali e vitaartificiale. I suoi programmi diagnostici, didattici e di ricerca sono stati pubblicati su riviste internazionalie sono regolarmente utilizzati a livello universitario. Ha collaborato con il CNR e con il CeNCA. Autoredi 60... Leggi la biografia

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